Pablo Daniel Osvaldo

In un momento storico in cui il calcio cambia, com’è giusto che sia, l’intensità è una scelta prioritaria. Il pressing si fa sempre più alto e i numeri dieci autentici spariscono per diventare degli attaccanti esterni o dei falsi numeri nove. In un contesto del genere sulle fasce si necessita spesso e volentieri di giovenche che corrano fino allo sfinimento. In questa epoca globalizzata e davvero troppo social alcuni nostalgici parlano ancora di Pablo Daniel Osvaldo con trasporto ed emozione.
A pensarci bene è difficile credere che la commistione estetica di un pirata con una rockstar possa aver prodotto un calciatore di tale spessore; per la verità un grosso calciatore.
È stato un attaccante completo che aveva potenza, classe, fiuto del gol e doti acrobatiche. Oltre che l’ardire indomito di un gladiatore moderno.

Malauguratamente denotava alcune pecche caratteriali, forse proprio quelle che più difficilmente si possono perdonare. E le conseguenze furono nefaste.
“Che testa di rapa!” dicevano i romanisti che avevano perso la pazienza. Le sue reazioni esagerate suscitavano spesso commenti coloriti. Ma nessuno contestava il fatto che fosse un grosso calciatore.
Proprio lui, con una sfumatura nostalgica, ammise in seguito: “A Roma, avrei potuto fare ben altro, ma lì sono malati al punto da odiarti se non baci la maglia. Avrei voluto farmi rimpiangere”.

Con le maglie di Espanyol e Roma ebbe i suoi anni migliori; al top della forma fisica e mentale macinava gol e assist. In quel periodo oltre alla prolificità faceva mostra di una tracimante esuberanza fisica. Alcuni si ricordano un gesto tecnico di assoluta destrezza che ne potrebbe essere la sintesi.
È domenica 20 novembre 2011, la Roma conduce per 2-1 all’Olimpico sul Lecce: gli scambi stretti tra Lamela e Totti liberano Gago al limite dell’area di rigore. Quest’ultimo, el pintita, pennella un cross corto e morbido per Osvaldo. Quando la palla gli arriva, l’italo-argentino si trova al vertice dell’area. Quello che se ne segue è un gesto tecnico di rara bellezza in cui si vedono tutte le caratteristiche di un bomber di razza: destrezza , potenza, esuberanza, efficacia, coordinazione, tempestività. Stacco da terra, sforbiciata e boom: un gol da antologia. Applausi, stupore e frasi ad effetto: “Occribbio che ha combinato!”
Fa la mitraglietta ed esulta godendo di gioia pura. Che orgasmo. Passano pochi secondi e quel gol viene annullato. Che fiasco. La moviola lo decreterà poi valido. Che beffa.
Ecco, in tantissimi ancora se lo ricordano così: “Che grosso giocatore Osvaldo”.

In Italia ce lo ricordiamo con la maglia della nazionale: Prandelli gli affidò la numero dieci e lui lo ripagò con una doppietta nelle qualificazioni per i mondiali del 2014 contro la Bulgaria. Malgrado in cuor suo avrebbe sempre voluto giocare per l’Argentina.
Poi d’un tratto il sogno dei mondiali svanisce.
“Ho segnato 6 o 7 goal nelle qualificazioni, ero titolare, avevo la 10, ma mi ha lasciato fuori. Prandelli, amico mio, spero tu stia trascorrendo la quarantena in un buco… I quotidiani hanno iniziato a scrivere che ero argentino, che doveva portarne un altro. L’ho saputo dai giornali, Prandelli non mi ha nemmeno chiamato. Ho pianto, me l’ero meritata quella convocazione.”

La verità manca di un dettaglio: Osvaldo si autoeliminò per un tweet al vetriolo. Aurelio Andreazzoli,  un traghettatore che aveva sostituito il secondo corso tristemente  fallimentare di Zeman, lo aveva lasciato in panchina nella finale di Coppa Italia 2013, nel derby più importante di sempre. La Lazio trionfò con un gol di Lulic al 71’. Osvaldo non aveva digerito la panchina e si era lamentato. Andreazzoli gli aveva dato del ”piagnucolone” ed Osvaldo reagì alla sua maniera, esattamente con un tweet al vetriolo: “…Facevi più bella figura se ammettevi di essere un incapace… Vai a festeggiare con quelli della Lazio va…”

Il codice etico stabilito da Prandelli che non prevedeva dichiarazioni pubbliche contro gli allenatori precluse ad Osvaldo l’unica chance della sua carriera di partecipare ad un mondiale.

Dopo la deludente esperienza dell’Italia ai mondiali in Brasile, Prandelli da uomo vero, rassegnò le dovute dimissioni. Di lì a poco ricominciò dal Galatasaray provando a portarci Osvaldo: “Gli ho risposto che non ci sarei andato nemmeno per 50 milioni di dollari al mese”.

In Italia giocò anche alla Juventus di Antonio Conte con cui vinse uno scudetto e con l’Inter, a testimonianza del fatto che il suo valore era ampiamente riconosciuto. Purtroppo le intemperanze continuarono a turbare e limitare la sua carriera. In seguito ad un alterco con Mancini, ci fu una colluttazione che si concluse con un destro del giocatore: fu un cazzotto dopo Juventus-Inter del 2015. “ ‘Vuoi fare a botte? Ma non dirmelo davanti a tutti’ mi aveva detto Mancini. Se non mi avesse cacciato avrebbe perso autorevolezza. Poi andai nel suo ufficio piangendo, mi vergognavo. Un grande, con un bel carattere”.
L’Inter avrebbe potuto essere una delle ultime chance di un certo livello. 

I suoi impulsi violenti erano puro impeto. Nel maggio del 2016 il Boca Juniors rescisse il contratto a causa di un comportamento non consono: “Guillermo Barros Schelotto mi ha mandato via perché fumavo negli spogliatoi. Ho fumato nella nazionale italiana. Se gli dava fastidio poteva venire faccia a faccia a chiarire. Se vuoi mandare via un giocatore, parliamone in privato, non rendi pubblico il fatto che ho fumato. Non aveva rispetto. C’erano 12 colleghi che fumavano e ha mandato via me. Meglio che stavo fumando in quel momento, perché se no gli strappavo la testa!”. Al programma televisivo “Noche bastarda” tornò sull’argomento seminando ancora fiele: “Ho concluso male la mia esperienza con loro. Li confondevo perché entrambi vivono con la faccia da c… Poi loro sono così: se a uno fa male il ginocchio, anche all’altro fa male”.
La sua ultima esperienza è stata deludente, non c’è da stupirsi in effetti se i due allenatori del Boca, i gemelli Guillermo e Gustavo Barros Schelotto, vengano ricordati come due clown: “Ho avuto buoni tecnici in carriera e nessuno ha avuto bisogno di vendere fumo gridando verso le telecamere: ‘Non fate cross di m…’. Secondo me gli Schelotto sono come Ned Flanders dei Simpson: un giorno impazziscono e ammazzano tutti”.

Di fatto fu la goccia che fece traboccare il vaso che per altro era già scheggiato per le sue condotte al limite.
Dopo aver lasciato il Boca appese gli scarpini al chiodo per dedicarsi a tempo pieno alla musica:
“La gente non lo capisce e mi guarda come se fossi pazzo. Mi dicono: avevi tutto, hai giocato nelle migliori squadre del mondo e hai deciso di smettere? Sei matto. La gente non capisce, ma è questa la mia passione. Quanti soldi mi hanno offerto dalla Cina, ma preferisco asado e birra ai soldi. Il calcio non era più il mio mondo. Solo un business senza passione che iniziavo a odiare”.
Ora c‘è la musica. “Con Sergio, Taissen, Julen e Agustin abbiamo fondato i ‘Barrio Viejo’. Vorrei ci ascoltassero per il nostro valore, non per il mio nome. Oggi ho una vita molto diversa dalla routine quasi militare di un calciatore professionista. Quando giocavo mi sentivo come sorvegliato. E poi io amo fumare…”.

“Il calcio non mi manca”
– ribadisce Osvaldo – “ho giocato con grandi giocatori come Totti, De Rossi, Pirlo e Buffon, una vera fortuna, ma non ne sento la mancanza. Non sono mai stato un Cristiano Ronaldo con la palestra a casa, ma nei 90′ davo tutto. Ho fatto degli errori, ma sono stato un vero professionista e in campo ero il migliore” a ricordarsi di quanto fosse forte. Grosso giocatore.
Infine conclude: “Tutto quello che dicevano di me era falso, non sono mai stato un santo, ma da voi in Italia esistono le etichette”.
Eppure una seconda chance si è presentata più volte, nel 2016 lo chiamò Sampaoli, all’epoca allenatore del Siviglia:
“ ‘Dani, non ti chiedo nulla. Fai ciò che vuoi in campo e fuori, ma mi serve una punta’.
E io: ‘Mister, c’è il ‘Cosquín Rock’ (festival argentino, ndr)’.
Lui: ‘Dimenticavo! Vai, non puoi perderlo’.
Due pazzi”.

Nel 2019 accettò la proposta di Milly Carlucci per partecipare al programma televisivo “Ballando con le stelle”.
Come è già avvenuto in passato diventerà l’idolo del suo pubblico e farà innamorare più di qualche donna, confermandosi un bomber di razza. “Grosso giocatore” continueranno ad esclamare gli opinionisti dei salotti del calcio.

Nel gennaio 2020 tornerà a giocare per il Banfield dopo una pausa di quattro anni. Pur mantenendo inalterate le sue doti tecniche, fisicamente non ritroverà più la condizione da prima divisione. Eppure Osvaldo riuscì a trovare il campo due volte, rimediando anche un cartellino giallo. Il temperamento è quello di sempre, ma la forza e la resistenza no.
Con l’inizio della pandemia Osvaldo si ribella agli allenamenti via Zoom e le condizioni per il rinnovo si complicano. Sarà quello l’atto finale di una carriera un po’ avara di soddisfazioni per un giocatore che, valori alla mano, avrebbe potuto vincere decisamente di più.

In un’intervista a DZN si definisce un nomade che crede nei momenti di felicità: “Fare il calciatore mi ha reso tanto felice, ma anche tanto triste: troppo sensibile per quel mondo”.

L’intervistatore tocca anche un tema delicato, quello delle donne, alludendo al numero delle ex e qui da’ nuovamente prova di sensibilità: “Ho conosciuto tante persone interessanti” evitando il tema del numero di donne avute senza cadere in un bieco maschilismo.

Sempre nella stessa intervista gli chiedono se si sente un po’ Jhonny Depp: “Io sono Pablo Daniel – dichiara riaffermando il suo grosso carisma – ma entrambi amiamo Keith Richard e lo abbiamo omaggiato a nostro modo. Un po’ come quando la imburravo ed esultavo con il gesto della mitraglietta: amavo Batistuta e lo celebravo così”.

Ammette di non seguire più molto il calcio, ormai la musica lo ha completato in questa fase della sua vita. E quando lo si incita ad indicare che il miglior centravanti attuale, dopo aver esitato, sentenzia con ironia e sarcasmo: “Boh, chi lo sa. Forse ha smesso”. Grossa sicurezza.

Nel prosieguo dell’intervista su DZN lo si sollecita su alcuni personaggi, invitandolo a definirli rock o lenti, come faceva il Celentano nazionale.
Eric Lamela? “Rock“.
Francesco Totti? “Rock“.
Cesare Prandelli? “Lento è dir poco: lento e senza gusto”.
Mauro Icardi? “Rock, è forte lui”.
Roberto Mancini? “Rock“.
Aurelio Andreazzoli? “Passo“.
Roberto Carrer? “Chi è sto qua?”
E quando l’intervistatore gli fa notare che si tratta del guardalinee di Roma-Lecce del 2011 che aveva annullato quel gol da antologia lui risponde: “Rock!! Ci vogliono le palle quadrate per annullare un gol del genere”.

In fondo lui è come il salmone che si è tatuato sul braccio, un genio che risale il fiume: se ne sbatte di tutti e va per la sua strada. Controcorrente.

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