La tutela dei giovani calciatori è una delle priorità che la Uefa, l’organo principale che controlla il calcio europeo, si è imposta come traguardo per lo sviluppo del calcio stesso, valorizzando i settori giovanili e garantendo più spazio ai ragazzi cresciuti nelle “primavere”. L’aumento di proventi televisivi, l’entrata di ricchi investitori mediorientali e la possibilità concessa alle società di acquistare i giovani più promettenti sin dall’età di 16 anni in tutta l’Unione europea, ha portato i club a puntare sempre meno sui propri talenti. Risucchiati dal vortice del vincere subito senza programmazione a lungo termine, le squadre più ricche hanno fatto incetta dei migliori giocatori senza coltivare le nuove leve.
Quindi, come se la passano i giovani dei vivai in Europa? Non bene. Il Cies Football Observatory, nel report del mese di novembre (con dati ricavati fino al primo di ottobre), ha analizzato il ruolo che rivestono e l’attenzione che ricevono i “canterani” nei 31 campionati europei. Partendo dal presupposto, secondo il profilo tracciato dall’Uefa, che i “giovani cresciuti a livello locale” sono coloro che dai 15 ai 21 anni, indipendentemente dalla nazionalità, si sono allenati in una stessa squadra per almeno tre anni, l’indagine compiuta dal Cies coinvolge tutte i 460 club delle leghe superiori (dalla Serie A italiana, fino alla Ligat Ha’al israeliana). Il primo dato che emerge è un sostanziale ribasso della percentuale di giovani all’interno della prima squadra, dal 2009 al 2015. Un fenomeno che coinvolge tutta l’Europa: il primo ottobre del 2009 la percentuale era del 23.1%, quasi 1 su 4 proveniva dalla “primavera”; sei anni più tardi, invece, il valore è sceso al 19.7%, quasi 1 su 5. Controtendenza anche l’attitudine tradizionalmente positiva delle società nordeuropee a garantire ai propri talenti una possibilità di crescita: in Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia, infatti, si è registrato un crollo del 7.5%. Nell’andamento a fisarmonica, però, di particolare interesse è quello che sta succedendo nell’est Europa, dove la guerra che ha coinvolto Russia e Ucraina e la relativa crisi hanno spinto le società, in carente stato economico, a trovare soluzioni alternative al mercato, puntando sul proprio vivaio e facendo di necessità virtù.
A spiccare, in questa graduatoria, è la Bielorussia: nelle 14 squadre della Vysšaja Liha, infatti, ben il 34% delle rose è composto da giocatori “fatti in casa”. Primeggia l’FC Gomel che, pur essendo momentaneamente in ultima posizione, può vantare un primato europeo avendo il 92% dell’intero organico formatosi tra le mura domestiche. La tendenza orientale è dimostrata da un’altra immagine: tutte le squadre col numero più alto di allievi è posizionato nell’est dell’Europa, eccezion fatta per due squadre spagnole, il Las Palmas e l’Athletic Bilbao, storicamente noto per il suo orgoglio indipendentista e per la politica di tesseramento di ragazzi esclusivamente baschi o di origini basche. Prestigiosa è anche la sua cantera: qui, infatti, sono cresciuti i calciatori Fernando Llorente, Javi Martínez, Andoni Iraola, Fernando Amorebieta e Iker Muniain.
Com’è la situazione in Italia? In buona sostanza è grave. Se ci domandiamo quale opportunità garantiamo ai nostri giovani calciatori, i dati raccolti in questi primi mesi di campionato 2015-2016 sono preoccupanti. Solo l’8.6% della prima squadra è composto da ragazzi cresciuti nello stesso club (peggio fa solamente la Turchia con un 8.3%), nonostante gli obblighi imposti dalla Serie A alle società ai nastri di partenza: rose composte da 25 giocatori “over 21” dei quali almeno quattro “formati nel club” ed almeno altri quattro “formati in Italia”, più illimitata possibilità di tesserare “under 21”. Il cavillo al quale si sono aggrappate numerose squadre è che qualora le società non disponessero dei quattro ragazzi cresciuti nel medesimo settore giovanile possono inserire nella lista dei 25 fino ad otto calciatori formati in Italia. Si sono serviti di questa deroga soprattutto Hellas Verona, Chievo e Carpi: come riporta l’analisi di Cies, le tre società non hanno calciatori della primavera. La Uefa ha espresso preoccupazioni perché viene meno spirito di identità e di appartenenza, ma soprattutto non viene data la possibilità di giocare con regolarità, danneggiando, in ottica futura, anche un accesso alla nazionale.
Una volta in prima squadra, ulteriore difficoltà è debuttare in una gara ufficiale e guadagnarsi la fiducia dell’allenatore. Se il football inglese è visto come punto di riferimento per correttezza dei tifosi e qualità degli impianti, bisogna tirare le orecchie per l’occupazione dei più piccoli calciatori. In Premier League, infatti, giocano poco, anzi pochissimo, solo il 7.7% di tutti i match disputati finora. In Italia, invece, il dato sorride: mettendo da parte l’exploit di Gianluigi Donnarumma, portiere del Milan che ha fatto il suo debutto a 16 anni e 8 mesi lo scorso 25 ottobre contro il Sassuolo (e per questo non inserito nel report del Cies che si ferma al primo di ottobre), nella top 20 dei giovani più impiegati in Europa da luglio, ci sono quattro prodotti italiani. Quello che ha giocato di più in assoluto è Mario Piccinocchi, centrocampista classe ’95, cresciuto nel Milan e ora titolare nel Lugano, squadra svizzera; poi ci sono Assane Dioussé, centrocampista senegalese dell’Empoli, classe ’97 che con la maglia toscana ha giocato il 76.8% dei minuti complessivi, Olivier Ntcham, centrocampista francese (di proprietà, però, del Manchester City) che con il Genoa è stato in campo il 65.2% del totale e Pedro Pereira, difensore che si è formato nel Benfica, in Portogallo, e che è stato acquistato quest’estate dalla Sampdoria. Inserito dal The Guardian nella classifica dei migliori 50 calciatori al mondo nati nel 1998, con la squadra genovese ha giocato il 62.6%. Meglio di noi, solo l’Olanda che ha cinque giocatori in classifica.
Non esiste una ricetta di rapido successo e pronta all’uso. Il settore giovanile è complesso e abbraccia diverse sfaccettature che non possono essere improvvisate: educazione, istruzione dei più piccoli e soprattutto competenza tecnica e conoscenze pedagogiche del personale. E’ un percorso che porta i suoi frutti a maturare nel tempo. Nella speciale classifica dei club che maggiormente valorizzano ed esportano i loro talenti (tra tutti i 31 campionati) se può far strano vedere il Partizan di Belgrado al primo posto, non sorprende, invece, vedere un gradino più sotto Ajax e Barcellona. La loro filosofia è un certificato di autenticità che hanno saputo difendere nel corso dei decenni. E’ un patrimonio culturale di eccellenza e lo testimoniano i numeri: il Partizan, da luglio ad ottobre, può vantare di aver portato ben 78 giocatori in prima squadra (13 sono rimasti nel club, gli altri 65 giocano nei vari campionati europei); stesso discorso per l’Ajax con 75 ragazzi (11 nel club olandese, 64 in giro per l’Europa) e per il Barcellona con 62 elementi (10 ancora nel Barça stesso, 52 altrove). Dell’Italia si ha notizia solo allargando la lente di ingrandimento e focalizzando la ricerca tra i cinque top campionati europei, Premier League, Serie A, Liga, Bundesliga e Ligue1. Anche qui, però, è la tradizione a farsi largo: infatti, seppur in 18esima posizione, assieme al Bayern Monaco, troviamo l’Atalanta con 18 giocatori provenienti dalla primavera. In 11esima posizione, ma a pari merito con altre sei squadre, c’è anche l’Inter che può vantare 20 calciatori.
In sintesi, l’Europa non è un paese per giovani. Ai club manca coraggio e sfrontatezza nel puntare sul futuro del calcio.
Lascia un commento