FootLab – Il caso Cardiff e il lungo braccio di ferro tra business e tradizione

Cardiff, Galles, 2009.

La città è in pieno tumulto: si vocifera che la squadra dei beniamini locali, il Cardiff City, stia per rischiare seriamente la liquidazione dopo oltre un secolo di storia. Al contrario che sul campo, negli uffici le cose non vanno affatto bene e, seguendo l’esempio di altri club, la proprietà si muove in Estremo Oriente per cercare investitori interessati a rimpolpare le casse societarie. La scelta (l’unica forse) ricade sulla Malesia, dove l’imprenditore Datuk Chan Tien Ghee accetta di sedersi al tavolo dei soci in modo da poter ripianare i debiti accumulati negli ultimi anni. Il piano di emergenza funziona, i malesi salvano la squadra, ma in cambio, nel giro di un anno, si garantiscono la proprietà del club. E così nel maggio del 2010, a sedersi sulla poltrona numero 1 di Leckwith Road è un uomo di fiducia di Chan Tien Ghee, il maggior esportatore in Malesia del brand McDonald’s, Vincent Tan. Il progetto di Tan accende gli animi e le fantasie dei tifosi. Vengono immediatamente investiti centinaia di milioni per ammodernare lo stadio e creare una squadra capace di vincere fin da subito, perché la cordata malese vuole poter competere ai piani alti della piramide calcistica inglese. E veder così volare i Bluebirds.

Bluebirds…

A sentire il soprannome della squadra, però, a Tan si storce sempre un po’ il naso. C’è davvero la possibilità che con un nome e un colore del genere la squadra possa accrescere il proprio appeal anche in Oriente? Può forse Tan, colosso dell’imprenditoria in Malesia, permettersi di rimanere un passo indietro rispetto alle più blasonate società inglesi come Manchester United e Liverpool? Badate, sono due squadre che non sono state citate per caso, ma hanno un unico filo conduttore: il rosso. Non è un mistero che in Estremo Oriente il colore del fuoco rappresenti un simbolo beneaugurante e non è un caso che i due sopracitati club spopolino letteralmente nell’altra parte del mondo, surclassando nelle vendite del merchandising i rivali del Manchester City o del Chelsea, giusto per fare un esempio.

Quando lo staff presenta questi risultati a Tan, qualcosa nella mente del tycoon inizia a frullare. Passano due anni e tutto sembra procedere alla normalità. Il Cardiff non è nella elite del calcio britannico, ma non se la passa così male, arrivando persino a conquistare una finale di Coppa di Lega poi persa contro il Liverpool. E proprio qualche settimana dopo, ecco che per i tifosi arriva la doccia gelata. A giugno 2012, infatti, Tan annuncia che a partire dalla stagione successiva la società attraverserà una fase di rebrand, ovvero di rivisitazione del marchio. “Saranno cambiati minimi, orientati a garantire maggior visibilità”, pensano i tifosi, e invece quella che va in scena è una vera e propria rivoluzione. Via il blu dalle divise e dal logo, spazio al rosso, sinonimo si fortuna e integrità. Viene persino mandato in pensione la rondine, da sempre simbolo per eccellenza del club e al suo posto ecco apparire il “Y Ddraig Goch”, il drago (rosso) emblema del Galles, essendo presente anche sulla bandiera nazionale. Un look totalmente diverso insomma, con il blu relegato (simbolo di morte e lutto nella tradizione orientale) a colore dominante della seconda divisa, quella da trasferta.

Dai Bluebirds ai Red Dragons quindi, perché in questo modo, recita un comunicato stampa sul sito ufficiale del club pubblicato a suo tempo “il nuovo simbolo e il nuovo colore servivano a cementificare una simbolica fusione tra la cultura gallese e quella asiatica attraverso l’uso del colore rosso e dell’icona del drago. La fonte di una possibile rinascita economica del club, attraverso la promozione e la commercializzazione della società e del suo nuovo marchio, che avrebbe attirato nuovi investimenti internazionali permettendo di avere a disposizione maggiori fondi da investire e offrendo quindi maggiori possibilità di raggiungere il successo”.

Inutile dire che il cambiamento non è affatto piaciuto ai sostenitori del club, che hanno visto la propria ultracentenaria tradizione biecamente immolata sull’altare del business. Da qui ha preso vita una vigorosa protesta da parte dei tifosi, che hanno minacciato un vero e proprio sabotaggio nei confronti del club pur di difendere i propri amati colori societari che mai avevano subito l’onta di essere così profondamente trasformati in tutta la loro storia. Peraltro per motivi puramente economici. “Sack the board e take the control” è stato l’invito diramato alla città al fine di ripristinare l’originale blu sulle maglie dei propri beniamini e che alla fine è stato accolto dalla proprietà malese prima che si potesse arrivare a un punto di non ritorno. Oltre che generare un danno d’immagine (e sempre di soldi si parla) incalcolabile. Al termine della stagione 2013-2014, perciò, si è optato per un secondo rebrand, con il blu che è tornato definitivamente a colorare la prima divisa del club e con la rondine che, dopo una migrazione forzata di due anni, ha ritrovato posto sul logo primario. Il rosso è tuttavia rimasto come colore per la maglia away, mentre il dragone si è dovuto accontentare di un angolino all’interno dello stemma.

“Questa proposta non era intesa a mutare la tradizione e la storia del club, che riconosciamo essere la sua linfa vitale – ha dovuto fare marcia indietro il club in virtù della sollevazione popolare – Perciò, alla luce del parere contrario dei tifosi, espressi direttamente alla società o attraverso i media, non procederemo ulteriormente con la proposta di cambiare il colore e il simbolo della squadra. Il Cardiff City ha una storia importante, che siamo onorati di celebrare a livello locale, nazionale e globale”.

Con buona pace della proprietà asiatica, che ha dovuto alzare bandiera bianca in questo braccio di ferro fra tradizione e business che avrebbe potuto segnare un’importante pagina di storia non solo del Regno Unito, ma dell’intero mondo calcistico.

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