HomeMondoRoad to Confederations Cup, le origini del mito (parte 1)

Road to Confederations Cup, le origini del mito (parte 1)

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Il 22 Giugno prossimo, alle ore 18 locali, sul prato del Krestovsky Stadium di San Pietroburgo avrà inizio la sfida tra Russia e Nuova Zelanda, che darà ufficialmente il via alla decima edizione della Confederations Cup. In attesa del “kick-off” del torneo quadriennale targato FIFA, proviamo a creare l’atmosfera giusta andando a conoscere più nel dettaglio la storia di questa manifestazione, che dà oltre 10 edizioni serve da grande prova alla nazione ospitante in attesa della vera “Prima”, ovvero il Mondiale.

Il nostro cammino inizia in Arabia Saudita, precisamente nella capitale Riyadh. L’intuizione arriva dalla mente dell’allora Re saudita  Fahd bin Abdulaziz Al Saud, che decide di organizzare un torneo, ovviamente dandogli il suo nome, in cui la sua nazionale potesse confrontarsi con altre grandi realtà del calcio internazionale, nonché campioni in carica del proprio continente. Un modo innovativo per decidere la regina tra le regine. Così nel 1992 si arriva ai nastri di partenza della Fahd Cup, ovviamente il primo spot fu riempito dall’Arabia Saudita in qualità di paese ospitante e di detentrice del titolo di campione d’Asia. Traguardo raggiunto grazie al successo in finale contro la Corea del Sud, la quale dovette alzare bandiera bianca solo dopo la lotteria dei calci di rigore sull’errore fatale di Cho Yoon-Hwan.

La seconda piazza fu occupata dagli USA, rappresentanti del continente nordamericano e vincitori appena l’anno prima della Gold Cup. Caso vuole che anche in questo caso il trofeo fu assegnato con la giostra dei tiri dagli undici metri, dove a trionfare fu la squadra a stelle e strisce con il punteggio di 4-3. A decidere la contesa fu l’errore decisivo di Juan Espinoza, che mise fine alle speranze di vittorie del suo Honduras mandando il sesto, ed ultimo, penalty al cielo. Questa serie, però, passò alla storia soprattutto per la grande giornata dei due portieri, infatti l’americano Tony Meola e l’honduregno Wilmer Cruz (entrato al 119esimo come cambio tattico al posto del collega Belarmino Rivera) monopolizzarono lo show subendo solo 7 reti su 16 tentativi complessivi.

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Il 1991 fu un grande anno anche per l’Argentina, squadra partecipante numero 3 grazie al successo continentale appena ottenuto nel girone finale della Copa America. Infatti, contrariamente a quello che accade oggi, in quell’edizione il trofeo venne assegnato dopo un ultimo round con un gironcino all’italiana composto da quattro squadre. Allora a presentarsi allo sprint finale furono Argentina, Brasile, Colombia e Cile. A trionfare fu l’Albiceleste, che riuscì a superare i rivali storici del Brasile grazie alla vittoria dello scontro diretto, riuscendo a rendere indolore anche lo stop contro il Cile. A mettere KO la selezione verdeoro fu la doppietta di uno scatenato Dario Franco (oggi allenatore dell’Aldovisi) e la zampata di un giovane Gabriel Omar Batistuta, che proprio in quel torneo fece innamorare la dirigenza della Fiorentina, la quale spese subito quasi 7 miliardi delle vecchie lire per acquistare il suo cartellino dal Boca Juniors. Inutili per il Brasile le reti del duo italico Branco (laterale del Genoa) e Joao Paulo (attaccante del Bari). Sul primo ci sarebbe da aprire un capitolo di storia, ma basti solo sapere che in Brasile è considerato come il predecessore di Roberto Carlos per quanto riguarda i calci di punizione, addirittura si dice che era solito sistemare la valvola del pallone verso la direzione in cui intendeva indirizzare la “bola”.

Infine ad occupare l’ultimo posto di questo neonato torneo fu la Costa d’Avorio, campione solo qualche mese prima della Coppa d’Africa. Dopo aver eliminato Zambia (rete di Sié al 94esimo del primo extratime) e Camerun (5-4 dcr), in finale fu la volta dei padroni di casa del Ghana, che dopo una maratona di 120 minuti dovettero arrendersi ai calci di rigore dopo un totale di 24 penalty e sull’errore fatale di Baffoe. Ma questo atto finale passò alla storia anche perché per la prima volta in una grande competizione internazionale tutti e ventidue gli effettivi in campo tirarono almeno una volta dal dischetto, infatti il povero Baffoe sbagliò al suo secondo tentativo di giornata visto che era stato uno dei primi due ad aprire le danze.

Piccola (doverosa) nota a margine di questa presentazione: la grande assente fu senza dubbio l’Olanda, detentrice del trono europeo dopo la manifestazione tedesca del 1988. Sarebbe stata una bella sfida contro la corazzata Argentina, due modi diversi di vedere il futbol. Da una parte la “garra” e la spensieratezza degli argentini, dall’altra la grande rivoluzione del calcio totale, dove tutti fanno tutto. Un vero e proprio “Clash of titans”. Nulla da fare, invece, per il continente oceanico, che all’epoca non vantava la coppa continentale. O meglio, non è che non ce l’avesse, ma si faceva fatica ad organizzarla, visto che in fin dei conti si trattava sempre di una corsa a due tra Australia e Nuova Zelanda.

Tornando sui binari giusti, la formula del torneo era molto semplice, solo partite ad eliminazione diretta tutte giocate nell’impianto di Riyadh da 67.000 spettatori. Due semifinali e due finali, il tutto nel giro di appena 4 giorni. Per l’occasione inoltre ogni federazione partecipante fu invitata anche a mandare un arbitro per la direzione dei quattro match previsti. Per la CAF fu scelto Lim Kee Chong (arbitro delle Mauritius), entrato nel panorama internazionale con il Mondiale U17 del 1991 e le Olimpiadi spagnole appena concluse. L’Asia fu rappresentata dal siriano Jamal Al Sharif, oggi esperto di Bein Sport e che aveva alle spalle già due Mondiali (1986 e 1990). Infine, per quanto riguarda l’intero continente americano, i due prescelti furono il costaricano Rodrigo Badilla (internazionale dal 1988 al 2002) e il brasiliano Ulisses Tavares da Silva (appena entrato nel panorama internazionale con il mondiale U17).

Dopo mesi di preparazione tutto ha inizio il 15 Ottobre 1992 alle ore 20:00 locali, quando, davanti ad uno stadio tutto esaurito, si affrontano i “padroni di casa” dell’Arabia Saudita e gli USA. Gli Stati Uniti del leggendario Bora Milutinović (passato alla storia con la Nigeria dei sogni a Francia ’98) si presentano alla competizione saudita quasi con lo stesso organico vittorioso nella Gold Cup, anche se c’è una pesante assenza da colmare, ovvero quella del bomber Eric Wynalda, appena approdato in Germania al Saarbrücken. L’Arabia Saudita, dal canto suo, risponde con una formazione completamente rivoluzionata rispetto a quella del 1988 partendo dalla panchina (dove al brasiliano Parreira succede il connazionale Nelson Rosa) sino agli interpreti in campo (unico “highlander” il difensore Al-Dosari). Da una parte c’è la voglia di affermarsi dei giocatori sauditi, sconosciuti per lo più al grande pubblico, mentre dall’altra c’è la sorpresa dei giocatori statunitensi, i quali vengono colpiti dalla strana atmosfera dello stadio come raccontato dall’allora difensore del Friburgo Paul Caligiuri (passato alla storia per lo “Shot heard round the world”, ma quella è un’altra storia…):

“Lo stadio era incredibile. Dagli spogliatoi al terreno di gioco, sino alla cornice ambientale. Ma una cosa ci colpì in particolare: faceva molto freddo. Così cominciammo a scaldarci e mentre lo facevano notammo lo strano comportamento della folla: continuavano ad alzarsi e sedersi. Tutti in quel momento ci chiedemmo: cosa sta succedendo? Poi voltammo lo sguardo in tribuna dove vedemmo un’ampia zona agghindata con un grosso trono. Quella era la zona del Re, che continuava ad alzarsi e sedersi cercando di vedere il riscaldamento del portiere. A quel punto fu tutto chiaro, era lui a condurre le danze”.

La strana atmosfera catapulta i giocatori statunitensi in una strana partita, infatti i padroni di casa dell’Arabia Saudita spingono subito sull’acceleratore e mettono in grossa difficoltà gli avversari. A salire in cattedra è un super Tony Meola, che con diverse parate mantiene inviolata la propria porta per tutto il primo tempo. Nella ripresa, però, il copione non cambia di una virgola. Infatti gli USA continuano a sentire la mancanza di Wynalda e vengono schiacciati da una sorprendente Arabia Saudita; il tutto sotto gli occhi attenti, e soddisfatti, di re Fahd.

“Per tutto il match noi fummo messi sotto scacco. Fummo sorpresi soprattutto dal loro ritmo, specialmente sulle azioni in contropiede, dove erano molto bravi ad attaccare gli spazi.” (John Harkes, centrocampista USA)

Alla fine, dopo minuti di assedio e diverse chance sprecata, arriva il primo momento storico della competizione. Tutto inizia al 47esimo minuto di gioco: Samy Al-Jaber entra in area di rigore e viene steso malamente da Tony Meola. Per il brasiliano Ulisse Tavares da Silva non ci sono dubbi, nonostante le vibranti proteste di Meola sulla presunta simulazione del centravanti avversario, è calcio di rigore.

“Tony Meola era una di quei portiere conosciuti per la loro serietà, così venne da me e mi disse: questa è tutta una finta. Non era assolutamente vero. Io ero un pò spaventato da questo “big guy”, ma naturalmente respinsi le sue accuse. E la prova schiacciante era che mi ero fatto davvero male. Non a caso andai fuori dal campo e non potei battere il rigore” (Sami Al-Jaber, attaccante Arabia Saudita).

Dal dischetto, al suo posto, si presenta Fahad Al-Bishi (bandiera dell’Al Nasr), che con grande freddezza spiazza Meola portando in vantaggio l’Arabia Saudita.  Un gol storico, il primo nella storia della Confederations Cup, il primo su ventisei dagli undici metri. La rete fa esplodere tutto lo stadio e carica ulteriormente i padroni di casa, che continuano ad attaccare a testa bassa e riescono a raddoppiare al minuto numero 74. Tutto nasce da un bel calcio di punizione battuto da Khaled Al-Muwallid. che con un ottimo cross pesca la testa di Yousuf Al-Thunayan, il quale piazza la palla in fondo al sacco con una traiettoria imprendibile per Meola. 2-0 e partita in ghiaccio. Nel finale c’è anche gloria per  Khaled Al-Muwallid, che finalizza al meglio una bella azione corale di prima della squadra saudita e blocca il punteggio sul 3-0 finale. Una serata perfetta, una notte magnifica ed indimenticabile per la nazionale biancoverde. Un biglietto di presentazione ottimo per l’intero mondo del calcio. Prestazione da dimenticare, invece, per gli USA, rimasti intrappolati all’interno della bella sfera di cristallo costruita da Nelson Rosa e dal suo undici.

“Fu una grande sorpresa per noi. Loro erano ben organizzati, giocavano un discreto calcio anche a livello tattico. Non ebbero tante opportunità ma furono molto cinici. Rimasi molto sorpreso nel vedere giocare una nazionale come la loro a quel livello.” (Paul Caligiuri, USA).”

Nell’altra semifinale tutto facile per l’Argentina, che si sbarazza della Costa d’Avorio con un secco 4-0. In quella “Albiceleste” ci sono giocatori come il “Cholo” Diego Alberto Simeone (numero 10 e reduce dalla esperienza poco gratificante di Pisa), “El Pajaro” Claudio Caniggia (passato in quell’estate dall’Atalanta alla Roma), Gabriel Omar Batistuta (vedi sopra) e Sergio “Goyco” Goycochea. Una formazione troppo forte per gli “Elefanti” ivoriani, che già dopo appena 10 minuti si trovano sotto di due reti. Ovviamente la firma è quella di “Batigol”, il quale monopolizza la scena battendo per due volte l’incolpevole Alain Gouaméné con due conclusioni da vero bomber di razza. L’uno-due stordisce di fatto la selezione africana, che prova a reagire in qualche modo ma il muro difensivo argentino sembra una muraglia invalicabile per “Ben Badi” Traore e Donald-Olivier Sié. Nella ripresa le cose non vanno meglio per la squadra di Yeo Martial (intravisto in Italia per una breve collaborazione con il Parma), che intorno al 50esimo rimane anche in 10 per l’espulsione di Sam Abouo. Da qui in poi per l’Argentina diventa tutto molto più facile, infatti l’Albiceleste continua a giocare sul velluto e prima del triplice fischio chiude la pratica con altre due reti. Il tris porta la firma di Ricardo Altamirano (appena approdato al River Plate, dove vincerà quattro campionati, una Libertadores e una Supercopa Sudamericana), mentre il poker definitivo arriva con un guizzo del “Beto” Alberto Acosta (uno dei primi sei bomber nella storia del San Lorenzo Almagro e bandiera indiscussa dell’Universidad Catolica). Una prova di forza, un atto di superiorità quello dell’Argentina, che risponde all’Arabia Saudita mostrando subito i muscoli.

“Sono stato molte volte in porta e li ho guardati giocare mille volte. Era sempre un piacere farlo. Il nostro attacco aveva un’intesa pazzesca, mentre la nostra difesa era un muro invalicabile. Davamo l’impressione che qualsiasi squadra, per poterci battere, dovesse giocare la partita perfetta senza commettere alcun errore.” (Sergio Goycochea, portiere Argentina).

Così al termine dei primi 180 minuti arrivano i verdetti definitivi per i due atti finali della competizione. Nella finalina per il terzo/quarto posto è in programma la sfida tra USA e Costa d’Avorio, mentre la finalissima mette di fronte la rivelazione Arabia Saudita contro il colosso Argentina. Un altro capitolo dell’infinita storia tra Davide e Golia.

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