Chi è Santos Borré, la Máquina

Rafael Santos Borré è l’ultima speranza del calcio colombiano. Lo chiamavano “Garantías Borré”, (letteralmente «cancellai le garanzie»), ma adesso per tutti è semplicemente “La Máquina”, per quel suo stile di gioco. Non si ferma mai, in campo è sempre quello che corre più di tutti, in tutte le direzioni, probabilmente per sopperire a un fisico non particolarmente potente. Il suo idolo è il suo compaesano Teófilo Gutiérrez, ma assomiglia più a Carlos Bacca, «prestavo molta attenzione a come giocavano, ai loro movimenti in campo e mi impressionava come definivano, per me sono stati dei punti di riferimento». Ma adesso lui sta seguendo il suo cammino, approdato giovanissimo in Europa, potrà dimostrare le sue qualità al Villarreal, dove è arrivato per compensare l’assenza di Roberto Soldado. Ma la sua storia, come tutte quelle dei giocatori sudamericani, ha un sapore diverso, e passa ciclicamente per elogiarne quella che invece è la sua miglior dote: la pazienza. Una dote non richiesta a un calciatore, ma che può fare la differenza tra un talento inespresso e uno sbocciato, perché- come diceva Leopardi – “la pazienza è la più eroica delle virtù giusto perché non ha nessuna apparenza d’eroico”.
Suo padre Ismael Borré Aguilera, laureato in matematica, e sua madre Deysi Maury decidono di chiamarlo Rafael Santos in onore a una celebre canzone colombiana degli anni ’80 “Mi muchacho”. Il pezzo di Diomedes Díaz fu dedicato a uno dei suoi ventotto figli (avuti con undici donne diverse), ossia a Rafael Santos Díaz che ne ricalcherà la gesta nel mondo dello spettacolo. Ma excursus a parte, Rafael Santos Borré ha i natali a Santodomingo de Guzmán, barrio di Barranquilla, originario della nonna Tiburcia, da parte materna. Ma il matrimonio tra Ismael e Deysi non durerà ancora per molto: dopo aver dato alla luce due figli con lei, Ismael ricomincerà una nuova vita a Valledupar, a trecento chilometri di distanza, con Ana Madera, che gli darà altri quattro figli. Per questo Rafael spesso parlerà delle sue due madri, le due famiglie restano in ottimi rapporti e lui stesso stringerà un legame molto forte anche con la madrina.
Appena arrivato in città papà Ismael va a subito a cercare il professor ‘Chiche‘ Maestre per presentargli suo figlio che ha soli cinque anni ma sembra nato per fare il calciatore. Maestre è l’allenatore di calcio dell’istituto Loperena, e assieme al suo collaboratore José Rodríguez, intuirà subito le potenzialità di Rafael Santos: «Gli piaceva giocare, era bravo, resisteva alle botte, non aveva paura di cadere a terra e segnava sempre». Il ‘Chiche‘ Mestre come riscaldamento chiede ai bambini di liberare il campo Panamá dalle pietre e quando si inizia a giocare Rafael Santos ruba la scena a tutti gli altri segnando montagne di reti. Così l’allenatore decide di metterlo alla prova iniziando a lasciarlo in panchina, per inserirlo solamente negli ultimi minuti: «Bene, vediamo se riesci a segnare adesso» lo sfida. Ma lui, sempre tranquillo, entra e risolve le partite. Grazie a lui imparerà ad avere pazienza e ad aspettare il suo momento, una dote che lo aiuterà molto qualche anno più tardi.
Nel barrio di Alfonso López, dove abitano, tutto il quartiere impara a conoscere il piccolo Rafael Santos: all’età di otto anni è già una celebrità per rompere i vetri di tutto il vicinato a furia di giocare a pallone. Il padre risolve la faccenda ripagando i vetri a mezzo quartiere, anche se spesso viene accusato di essere troppo clemente nei confronti di quella piccola peste. Ma lui crede ciecamente nel figlio così decide di portarlo a un allenamento del Neogranadinos-Refrinorte, una scuola-calcio appena nata, fondata da Álvaro Aguilar, padre del giocatore Abel Aguilar, che per distrarsi dalla sua professione di avvocato si dedica alla sua grande passione, gestendo e allenando un piccolo club. Qui vengono subito notate le qualità del piccolo Rafael, che viene adocchiato da Henry Peralta e dal suo braccio destro Federico Chams. Viene trattato con i guanti bianchi: per una realtà appena nata trovare un giocatore promettente è una grande soddisfazione. Ma lui ha un sogno: quello di vestire la maglia dello Junior de Barranquilla, così convince il padre a portarlo alle installazioni di Bomboná. «C’erano molti giocatori che si allenavano sotto la direzione tecnica di Alex Costa, ma non mi piacque l’ambiente, dopo un paio di settimane lì decisi di non tornare mai più e tornai a giocare con la squadra neogranadina».
Sono gli anni della sua formazione, i più importanti per il tipo di uomo e calciatore che sarà. La madrina Ana lo costringe a lavarsi da solo le magliette, pantaloncini e calzettoni, vuole fargli capire che deve imparare a cavarsela da solo nella vita. Nel Neogranadinos capiscono di avere a che fare con un giocatore che farà strada e Rafael Santos Borré inizia a scalare le varie squadre giovanili, allenato dai vari César Picalúa, Rolando Campbell e Heiner Blanco. «Ti stiamo educando affinché tu possa prendere decisioni, non per seguire istruzioni» gli spiega il padre. Henry Peralta, il suo primo allenatore, che lo ha preso a cuore, decide di segnalarlo ad Agustín Garizábalo, in pratica il più grande talent scout di tutta la Colombia, colui che tra gli altri ha scovato anche Cuadrado e Muriel. Ma Garizábalo, che di ragazzi giocare ne vede a bizzeffe da anni, non si fida dell’amico Peralta: «esagera sempre!». Finché una sera capita proprio da quelle parti e decide di andare a buttare un occhio a quel giovane attaccante, che è riuscito ad attirare l’attenzione essendosi aggiudicato il titolo di capocannoniere della Liga del Atlántico per due stagioni consecutive. In quella partita Santos Borré non segna, ma a fine partita Agustín Garizábalo si segna quel nome sul taccuino: la sua carriera sportiva è appena decollata. «Fin dalla prima volta che l’ho visto giocare mi ha colpito, non tanto per le sue doti realizzative più che altro per la sua mobilità in campo, per quello iniziai a seguirlo come faccio per tutti i giocatori che possono fare la differenza». Federico Chams li introduce di persona, Garizábalo gli regala una maglietta del Deportivo Calì, società per la quale lavora come osservatore per l’intera regione del Caribe, e gli promette di venire a vederlo giocare ogni sabato.
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Poco tempo dopo, siamo nell’ottobre 2010, Carlos Julián Burbano, direttore del settore giovanile del Deportivo Cali si è recato a Barranquilla per assistere alla finale della Liga del Atlantico, rinomato torneo pre-juvenil della zona. Vuole portare a Cali tre giovani della Selección Atlántico ’94: Jesús Martínez, Alexis Pérez e Andrés Roa, ma Agustín Garizábalo gli chiede di aggiungerne un altro, un classe ’95: «Il ragazzo sale, scendo, ha tecnica, corsa, e come tocca la palla! Si sacrifica, ha gamba, mi ricorda “La Perra” Carrillo, va facilmente in gol, ma assomiglia di più a Fredy Montero». Carlos Julián Burbano non è convinto, questo quindicenne è troppo magro, ma acconsente a dargli una possibilità: uno stage di venti giorni per visionarlo meglio. Lui si mette in mostra per le sue qualità: è una seconda punta, cagionevole di corporatura, ma mobile come pochi altri, taglia in continuazione su tutto il fronte d’attacco, è predisposto alla copertura e in campo dà tutto. Dei quattro giocatori selezionati si dimostrerà il più talentuoso per distacco.
Al Deportivo Cali si inizia a fare sul serio, come una squadra di primo livello richiede. Il ragazzo viene seguito attentamente, a iniziare dalla nutrizione: deve mangiare il doppio e metter su massa muscolare per poter competere con i suoi compagni. Ma non comincia subito a giocare nel campionato Nacional, viene utilizzato per la Liga Vallecaucana e il Torneo de las Américas under-17. Proprio in quest’ultimo dimostra di avere i numeri: pur partendo spesso e volentieri da subentrante accumula reti in continuazione. Saranno venticinque nel suo primo anno, e diciotto nel secondo. Finché Leonel Álvarez, tecnico della prima squadra, decide di farlo allenare con i grandi a soli diciassette anni: ne rimane impressionato e lo fa esordire pochi mesi più tardi. Ma trova ancora poco spazio in Primera A, la massima serie colombiana. Una mattina Leonel Álvarez gli comunica che non sarebbe sceso in campo per la gara che si sarebbe tenuta qualche ora più tardi. Accade spesso, ma stavolta la formazione Juvenil ha raggiunto la semifinale e lui vorrebbe esserci, così gli viene accordata la possibilità di prendervi parte. Com’è giusto che sia il tecnico del Deportivo Cali juvenil, Jairo “El Mastro” Arboleda preferisce lasciarlo in panchina. Agustín Garizábalo è a bordocampo a visionare altri giocatori, e quando incrocia il suo sguardo si avvicina e gli chiede come va, «Agu, sto qui aspettando la mia opportunità» gli risponde con un sorriso. Opportunità che non avrebbe tardato ad arrivare: con la squadra in svantaggio di un gol, Santos Borré fa il suo ingresso in campo nel secondo tempo. Dopo venti secondi pareggia i conti, e nel giro di dieci minuti firma il definitivo due a uno. A neanche diciotto anni è già un fuori-categoria. «Quel giorno mi convinse, non ebbi più alcun dubbio su di lui» confesserà poi Agustín Garizábalo.
Il suo incorporamento nella prima squadra diventa definitivo l’anno successivo, quando riesce a mettere a segno tre reti e due assist in appena sette apparizioni. Il suo nome inizia a circolare anche al di fuori dei confini colombiani nel gennaio 2015 durante il Campionato Sudamericano under-20, dove lo adocchia anche Antonio Cordón, d.g. del Villarreal. L’allenatore della selezione cafetera Carlos “Piscis” Restrepo lo fa partire dalla panchina, ma anche stavolta Santos Borré sa aspettare la sua opportunità, e finisce per diventare titolare, segnando anche due reti. Una volta tornato al Deportivo Cali la maglia da titolare non gliela contende più nessuno: nel Torneo di Apertura va in rete otto volte in appena dodici presenze. Si guadagna il passi anche per i Mondiali under-20, ma in Nuova Zelanda le cose non andranno benissimo: segnerà un solo gol in quattro gare, e la nazionale di Restrepo verrà eliminata agli ottavi dagli Stati Uniti. Comunque appena tornato in Sud America arrivano i primi interessi dall’Europa: lo Swansea sarebbe disposto a sborsare tre milioni di sterline, circa cinque milioni di euro, ma una serie di complicanze burocratiche legate al permesso di lavoro fanno saltare l’affare. A fine agosto sarà l’Atlético Madrid ad acquistarlo con un’operazione da cinque milioni e mezzo: 2,75 pagati dal club e 2,75 da Jorge Mendes che ne rileva metà del cartellino. Il giocatore comunque resta un altro anno in Colombia a farsi le ossa sotto la guida di Fernando “Pecoso” Castro. Adesso al Villarreal dovrà sgomitare per un posto con Pato e Sansone, ma anche se gli ci vorrà un po’ di tempo per ambientarsi, Rafael Santos Borré starà lì, calmo e sereno, ad aspettare la sua opportunità.