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La crisi del calcio brasiliano: debiti e fondi di investimento hanno ucciso la magia carioca

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Partiamo da un presupposto, non ho mai considerato il Brasile un paese romantico, non ho mai considerato le favelas un luogo nel quale ricercare la magia del calcio nei piedi dei ragazzini, le ho sempre viste come un luogo di morte, dove non alberga alcuna favola, ma solo una lotta per vedere l’alba di domani. Non ho mai capito i colleghi che sostengono il contrario. Dovessi descrivere il Brasile prenderei ad esempio la statua del Cristo Redentore che abbraccia i quartieri ricchi di Rio De Janeiro, mentre le favelas sono nascoste ai suoi occhi, come se una schiera di cammelli fosse transitata per la cruna di un ago.

Il calcio in Brasile è diventato oggetto di una spietata speculazione. Secondo il report di GlobeSporte, il cartellini dell’80% dei giocatori professionisti appartiene a uno o più fondi di investimento, andando a generare una vera e propria mobilitazione di merci. Il sistema dei fondi è talmente radicato che questi hanno rilevato anche alcuni club di serie inferiori, come il Tombense Futebol Club che appartiene alla Europe Sports Group e il Desportivo Brasil che è stato acquistato nel 2014 dalla Kirin Soccer. Questi club, all’apparenza insignificanti vengono utilizzati come deposito di giocatori, che poi verranno girati in prestito a società di categoria superiore, in un ciclo che si ripete ogni anno, con mobilitazioni che producono milioni di euro.

Sono schiavi del sistema dei fondi e dei procuratori anche i club della massima serie, fra cui il Corinthias, fresco campione nazionale. Il Timao già nel 2005 aveva allacciato una partenership con la MSI di Kia Joorabchian, che fece grandi colpi con gli acquisti di Tevez, Mascherano, Nilmar e Carlos Alberto, per oltre 50 milioni di euro per poi parcheggiarli al Corinthias. I diritti federali appartenevano al club carioca, lo stesso non si può dire per i diritti economici. La dirigenza entrò in conflitto con l’agente iraniano, causando un esodo di massa dei migliori talenti che lasciarono la squadra priva della propria spina dorsale e piena di debiti, causandone poi la retrocessione.

La situazione odierna nonostante il titolo conquistato due settimane fa è preoccupante: il debito attuale ammonta a circa duecento milioni di euro, la metà di questi nei confronti della Construtora Norberto Odebrecht  per la costruzione del nuovo stadio. Se il debito non verrà sanato esiste il rischio che la Federal Saving Bank possa prendere il controllo del club. Intanto i costi del personale sono cresciuti del 9% rispetto a un anno fa  per un totale di 43 milioni di euro.

In rosso profondo anche il bilancio delle altre società, il debito complessivo del calcio professionistico raggiunge 1,2 miliardi di euro. Chi ne ha fatto le spese recentemente è stato il Botafogo, che è andato incontro alla retrocessione, non se la passa bene il Cruzeiro che è stato costretto a vendere i due cardini della propria squadra ad est: Everton Ribeiro all’Al Ahli di Dubai e Ricardo Goulart al Guangzhou, ricavandone solo 3 milioni di euro sui trenta complessivamente spesi dai due club, dato che i restanti ventisette sono finiti nelle tasche dei fondi che ne detenevano il cartellino. Il San Paolo ha accumulato un debito da 30 milioni di euro, e non potrà contare nemmeno dello sponsor Toshiba, che ha deciso di annullare l’accordo siglato. Per non naufragare, i club si sono rivolti a banche che applicano un tasso di interesse che sfiora il 30%, con il governo di Dilma Rosseuf che è stato costretto ad intervenire per rateizzare i pagamenti in venti anni, in cambio i club dovranno rendere più trasparente la propria gestione e rendere pubblico il proprio bilancio anno dopo anno.

Il calcio è lo specchio della situazione economica dell’intero paese. Nel secondo trimestre 2015, secondo i dati comunicati dall’istituto statistico nazionale, il prodotto interno lordo è calato dell’1,9% dopo lo -0,7% dei primi tre mesi: si tratta della peggior recessione degli ultimi 25 anni. Secondo gli analisti, l’anno si chiuderà con una contrazione del pil del 2,3%. Ad influire maggiormente è il calo del prezzo del petrolio e delle materie prime, con l’inflazione che è giunta al 9,25% ed è destinata ad aumentare. Uno scenario drastico per un paese che si appresta ad ospitare le prossime olimpiadi, tanto che è lecito aspettarsi un netto sforamento del budget stimato inizialmente a 14 miliardi di euro.

Simbolo della crisi del calcio brasiliano è proprio la nazionale: il trionfo alla Confederation Cup del 2013 è stato solamente un illusione, dato che i risultati successivi sono stati un’autentica apocalisse: sempre nel 2013 il Brasile fa segnare un record negativo, il 22mo posto nel ranking FIFA, il punto più basso nella storia della nazionale carioca, la prima avvisaglia del disastro al mondiale casalingo, quando la nazionale di Scolari è stata umiliata per 7-1 dalla Germania. Passa un anno, cambia la guida tecnica, e il Brasile se possibile fa anche peggio alla Copa America, facendosi eliminare per la seconda edizione consecutiva ai quarti di finale, sempre dal Paraguay, sempre ai calci di rigore.
Il motivo principale di questa crisi di risultati è la totale assenza di talenti, a parte Neymar, non si profilano altri fenomeni all’orizzonte, vi sono una serie di buoni giocatori che non sono in grado di formare un collettivo. Emblematico il caso del numero 9, che in passato apparteneva a grandi campioni come Ronaldo o Adriano, ora Dunga l’ha affidato a Ricardo Oliveira, trentasette anni compiuti e totale flop del Milan dieci anni fa. Possibile che nel panorama brasiliano non vi sia di meglio?

Il futuro campione del Brasile oggi è schiavo dei fondi di investimento, questi cambia maglia anno dopo anno, con il forte rischio di non trovare una propria identità e di eclissarsi con il passare delle stagioni.

 

 

 

 

 

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