Rummenigge: il Sigfrido di Lippstadt

Quando in una fredda giornata napoletana del novembre ’85, nel pre partita Napoli-Inter, il nostro amato Giampiero Galeazzi domandò al Pibe de Oro cosa avrebbe chiesto a Karl-Heinz Rummenigge se lo avesse incontrato fuori dallo stadio, Maradona rispose: “Gli chiederei di non giocare”.

Attaccante prolifico (circa 15 gol in media a stagione con picchi anche di 24/25 segnature), Rummenigge, classe 1955, era la Volontà di Potenza fatta persona. Gambe d’acciaio, testa di ferro e un cuore che pompava adrenalina, tracannando ossigeno e sudore per un fiasco d’erba e vittorie. Quando a soli diciotto anni approdò nelle fila del Bayern Monaco, Karl aveva come compagni di squadra gente d’altissimo livello quali Beckenbauer e Muller, molto di più che leggende, cavalli possenti domati dal carro italico nella mitologica semifinale dei Mondiali ’70 e semidei che stavano per dominare, decisamente consapevoli delle loro forze, l’Europa a livello di club con un Panzer VI Tiger al posto delle solite squadre belle ma effimere. Furono tre le Coppe dei Campioni vinte consecutivamente dai tedeschi negli anni ’74-’75 e ’76, quando ancora l’Euro e lo Zefiro sbattevano sempre in un unico punto, cioè quel maledetto Muro che tagliava in due il paese di Bach, di Hegel, di Nietzsche e dello stesso Rummenigge. Dopo una finale vinta dal Bayern contro gli spagnoli dell’Atletico Madrid nel ’75 ma non disputata dal Karl, il giovane attaccante di Lippstadt ottenne il riscatto l’anno successivo, nella finale di Glasgow contro il St. Etienne. Fra il biancoverde dei francesi e il biancorosso dei tedeschi a spuntarla furono questi ultimi grazie ad un gol di Roth. Rummenigge ora è veramente sul tetto d’Europa. Ma il suo essere freddo e spietato davanti l’area di rigore non cambiò comunque la decisione da parte della Nazionale Tedesca di non convocarlo agli Europei svoltisi in Jugoslavia nel ’76. La rivincita, dopo un brutto mondiale in Argentina nel ’78, scese dal cielo come un piatto di frutta offerto da Odino nel successivo campionato Europeo in Italia nel 1980, quando il tecnico Derwall lo volle fra i suoi 11, dopo averlo visto vincere la classifica marcatori del campionato tedesco nello stesso anno con 26 gol, portando il Bayern al suo sesto titolo in Bundesliga. Si perché quando Karl aveva fra quei suoi piedi alati alla Ermes il pallone, beh non ce n’era per nessun portiere. Il 1980 fu un anno d’oro per Rummenigge: oltre alla Bundesliga e all’Europeo vinto all’Olimpico di Roma contro il Belgio gli fu consegnato il suo primo Pallone d’Oro (il secondo l’anno successivo), divenendo così il terzo giocatore tedesco a ricevere il premio dopo i suoi compagni di squadra Muller e il capitano Beckenbauer. Ormai Karl è uno dei top player d’Europa assieme a Cruyff e Platini. Rummenigge ha la possibilità di sfoggiare tutte le sue doti d’atleta i cui tiri da fuori area, incornate di testa, mezze e piene rovesciate lo completano come un attaccante di razza, uno di quelli che non si scordano facilmente. Se fosse un re sarebbe Mida, ogni palla che toccava diventava oro. Poi arrivò l’anno sfortunato, quello che accompagna necessariamente la carriera di uno sportivo perché, come dice il detto “non può piovere per sempre” e la terra a volte ritorna ad essere arida. Infatti con la nazionale tedesca Karl si vede sfumare sotto le ginocchia la Coppa del Mondo ’82 dall’Italia di Bearzot in quel di Madrid, dopo aver perso nel medesimo anno anche la finale di Coppa Campioni con gli inglesi dell’Aston Villa. Una consolazione la conquista della Coppa di Germania contro il Norimberga. Ma Karl resta in ogni caso una divinità in Germania, un patrimonio. Ne sa qualcosa anche l’Inter che dopo la straordinaria parentesi con la maglia del Bayern (tutt’oggi considerata una delle squadre di club più forti del dopoguerra, assieme all’Ajax di Cruyff e al Milan di Baresi e Van Basten) ricevette il Kalle, così era soprannominato Karl, nell’estate ’84, la stessa di Maradona al Napoli. In Italia, accolto come un idolo dai tifosi nerazzurri, non ottenne le stesse soddisfazioni calcistiche che ebbe in Germania, vuoi per il campionato impervio della nostra penisola, vuoi per il dominio bianconero di quel decennio. Di quegli anni difficili per l’Inter resta immortale la rete su rovesciata rifilata al Torino l’8 dicembre del 1985, acrobazia da Album Panini, gesto che va al di là della storia, dello spazio e del tempo, un’Eroica beethoveniana che rimane impressa come un diamante conficcato nella fronte, citando il Brando di Apocalypse Now. All’Inter segna ma i gloriosi tempi tedeschi sono un ricordo. Il suo tramonto è quella maledetta finale di Messico ’86, persa per la seconda volta consecutiva dopo quella con gli azzurri quattro anni prima, questa volta con l’Argentina del Pibe, di Valdano, di Brown e di Burruchaga. Un incontro sotto il sole cocente dello stadio Azteca di Città del Messico, davanti a 114.590 spettatori. E’ lì che Karl ha capito, come un moderno Odisseo, che era meglio tornare a riposare dopo enormi fatiche in mare aperto, non ad Itaca ma in Svizzera, con la maglia del Servette, luogo quieto e bucolico dove anche Thomas Mann passava a oziare fra un libro e l’altro. Karl è stanco di Scilla e Cariddi, Karl vuole adagiarsi a letto con Penelope, chiudendo gli occhi e rivedendo i suoi trascorsi.

Quando vedi in un vecchio video sgranato di una fredda giornata napoletana del novembre ’85, due giocatori come Rummenigge e Maradona che si scambiano battute, prima di giocare un incontro importante, che ti viene voglia di salire sulla DeLorean di Ritorno a Futuro e tornare indietro nel tempo a quegli anni dove nel calcio si respirava aria diversa, aria di casa. E se il tempo non esiste, come sosteneva quel geniaccio di Einstein, allora facciamo che il calcio degli anni ’80 sia un eterno presente. Biondo, alto, fisico statuario, sguardo vestfalico e occhi di bronzo, Karl Heinz Rummenigge, l’unico degno possessore dell’oro del Reno.


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